“Dove l’anima respira” — Tagore e il mattino di Gitanjali

Lascia che la mia vita canti davanti a te come fa il mattino.

Fra le voci che hanno saputo unire canto, filosofia e tenerezza, Rabindranath Tagore è una sorgente limpida. In Gitanjali (“Offerta di canti”) il mondo si apre come una finestra all’alba: non per fuggire dalla terra, ma per respirarla più a fondo.
Il suo è un misticismo quotidiano: il sacro non si trova soltanto nei templi, ma nel lavoro delle mani, nel vento che muove le foglie del neem, nell’acqua portata sulle spalle dalle donne. Ogni gesto è preghiera, se compiuto con presenza.

Tagore non predica, invita. Dice che la gioia non si conquista: si accoglie. E l’io, invece di occupare tutto lo spazio, si allarga fino a includere l’altro. In questo sta la sua rivoluzione dolce: il divino non è lontano; è il tu che mi cambia quando lo riconosco.

Il mattino è la sua metafora preferita. Non è soltanto un’ora: è un atto interiore di ricominciare. In molte liriche di Gitanjali l’alba porta con sé una promessa: essere semplici, lasciar passare la luce attraverso di noi, come fanno le canne al margine del fiume.
La povertà di mezzi diventa ricchezza di sguardo: poche parole, molta aria; una musica lieve che fa spazio invece di riempirlo.

Leggere Tagore oggi — in un tempo rumoroso, accelerato — significa esercitare la delicatezza. Non quella che evita le contraddizioni, ma quella che le attraversa senza spezzare. È una poesia che non impone, espone: mette sul tavolo la vita, così com’è, e ci domanda soltanto di esserci interi.

Non c’è distanza fra l’anima e il mondo
quando il cuore fa del respiro una preghiera.

Alla fine della pagina resta un invito: ringraziare. Non per una ricompensa, ma per la semplice possibilità di camminare dentro il giorno — con passo umano, umanissimo. È qui che Gitanjali diventa pratica: attenzione, gratuità, gratitudine.
Tre parole piccole che, come tre fiammelle, illuminano senza bruciare.


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