C’è un’ora in cui il sole non scende: si arrende.
In quell’attimo, il desiderio smette di chiedere e comincia ad ascoltare.
Tra le voci che hanno insegnato all’amore a scavare più in profondità, Rumi — il poeta mistico persiano del XIII secolo — è una fonte che continua a sgorgare.
I suoi versi non sono proclami: sono inviti. A volte una domanda, altre un canto, spesso un silenzio che apre spazio.
Nel Sufismo, il desiderio non è un nemico da domare, ma un vento da orientare: non verso il possesso, bensì verso la presenza. È il movimento che – come il derviscio che gira – ci riporta al centro mentre tutto attorno ruota. La danza (semâ) non è spettacolo, è preghiera in movimento: il braccio sinistro verso la terra, il destro verso il cielo, il cuore come asse.
Rumi ci sussurra che la sete è sacra quando non pretende di estinguersi, ma diventa ascolto. Allora il desiderio non stringe, allarga. Non consuma, illumina.
Così il tramonto non è un addio al giorno: è un accordo tra luce e ombra, un “ti riconosco” scambiato sul confine.
Non cercare fuori: il giardino è dentro.
Apri la porta dove l’aria già canta il tuo nome.
Questa poesia parla al nostro tempo affrettato come un maestro gentile. Non spiega, allinea. Non promette facili salvezze, ma indica una postura: stare, respirare, lasciar cadere l’eccesso. Il desiderio, quietato, non si spegne: diventa calore che non brucia.
E quando la sera posa una sciarpa arancione sulle spalle del mondo, impariamo a girare anche noi, piano, senza vertigini: un passo, un respiro, un grazie.
La via non è lontana: inizia dove i piedi toccano terra.